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Quando si parla di querceti mesofili si parla di raggruppamenti di specie forestali che esigono una moderata ma continua disponibilità idrica: per questo motivo queste tipologie di bosco si trovano in versanti ombrosi con suoli profondi (con suolo profondo si intende un orizzonte fertile di circa 1m di profondità).

Nei versanti con clima più secco e suoli meno profondi si troveranno invece i querceti xerofili, con la presenza di specie forestali più adatte a condizioni di aridità, talvolta anche estrema (vedi ambiente n.7 “Boschi di roverella e cespuglieti con citiso, ginepro, ginestra”).

I querceti mesofili sono raggruppamenti forestali molto complessi: nella loro composizione compaiono numerose specie arboree che si mescolano in diversa proporzione, dando luogo a boschi di aspetto molto diverso, conservando però connotati ricollegabili ad un solo ambiente. Le formazioni forestali sono presenti principalmente sui versanti in esposizione settentrionale delle valli secondarie dei Fossi tributari del Sillaro. Sono largamente boschi dominati da roverella (Quercus pubescens) con orniello (Fraxinus ornus) e, subordinatamente, acero campestre (Acer campestre); laddove i suoli sono più fortemente argillosi risulta più favorito il cerro (Quercus cerris), pianta che non ha timore di asfissia radicale; quest’ultima specie si adatta a condizioni climatiche molto differenti anche se preferisce climi temperati e con un certo grado di umidità, terreni più profondi e freschi e si trova maggiormente nei versanti esposti a Nord. Si alterna o si associa spesso con la roverella, con la quale condivide anche ampi territori; l’affermazione di una specie o dell’altra dipenderà dal tipo di terreno, dall’altitudine, dalla esposizione e soprattutto dal grado di umidità. Tipica è la disposizione delle due specie lungo i pendii al limitare del bosco. Nelle parti più basse, dove si raccoglie maggiore umidità, vegeta il cerro; man mano che ci allontaniamo dagli alvei dei canali e corsi d’acqua e andiamo in alto, dove cala lo spessore del terreno, in zone più soleggiate ed aride, troviamo la roverella.

La disposizione è chiarissima nella stagione del riposo vegetativo (autunno-inverno): la roverella fa da contorno ai popolamenti di cerro e si distingue per le foglie ancora attaccate ai rami, mentre il cerro presenta i suoi rami completamente privi di foglie. La roverella continuerà invece a mantenere parte delle sue foglie sui rami, anche se secche.

Le dimensioni degli alberi nella maggior parte dei querceti attuali sono la conseguenza del condizionamento imposto dall’uomo attraverso l’utilizzazione a ceduo, quella prevalente. Questo tipo di governo del bosco prevede tagli periodici abbastanza ravvicinati nel tempo (15 – 20 anni), così da impedire il naturale sviluppo della vegetazione.

Ciò che si ottiene con questo tipo di trattamento è un bosco con alberi di piccole dimensioni (8 – 10 metri di altezza), mentre molte specie sarebbero in grado in quello stesso tempo di raggiungere dimensioni molto maggiori. Il taglio che viene fatto prevede di lasciare in piedi circa 50 – 120 alberi per ettaro (prendono il nome di matricine) affinchè essi possano disseminare e garantire la nascita di nuovi individui della medesima specie.

È evidente che se l’uomo non avesse trattato il bosco a ceduo negli ultimi secoli, ai nostri giorni avremmo foreste lussureggianti e popolate da alberi maestosi.

Ciò che resta dell’utilizzazione dei boschi da parte dell’uomo, dopo secoli di ceduazione, sono boscaglie intricate nelle quali gli alberi hanno reagito al taglio con l’emissione di più fusti o polloni; in molti casi i boschi che un tempo erano popolati per lo più da querce sono ora a prevalenza di specie caratterizzate da una maggiore rapidità di crescita, come il carpino nero.

I recenti decenni di abbandono delle colline hanno messo in crisi questo tipo di sfruttamento del bosco e di fatto interrotto le pratiche di taglio a ceduo, favorendo una lenta e graduale conversione all’alto fusto.

Quando le condizioni orografiche sono poco favorevoli, cioè nei pendii scoscesi con orizzonte di suolo sottile o roccioso, i querceti non prendono la forma di boschi ben sviluppati e rigogliosi: in questi casi le specie arboree hanno un accrescimento limitato e la composizione floristica somiglia di più a quella dei cespuglieti e avremo prevalenza di carpino nero ed orniello.

Esistono diverse tipologie di manifestazione forestale in relazione alla disponibilità idrica: in terreni con molti detriti o su pendii rocciosi umidi il carpino nero cresce con grande slancio quasi in purezza; su suoli asciutti e compatti invece il bosco di carpino nero e orniello prende la forma di boscaglia bassa e impenetrabile, virando verso l’ambiente del cespuglieto a citiso e ginepro (vedi ambiente n.7 “Cespuglieti a citiso e ginepro”).

Le specie

Gli alberi principali di questi boschi sono:

Roverella (Quercus pubescens): oltre ad essere presente nei boschi mesofili in consociazione ad altre specie arboree, in valle del Sillaro troviamo esemplari isolati di roverella davvero significativi, di grandi dimensioni (20m e oltre di altezza). Uno di questi, all’interno di una proprietà privata in via Ca de Masi, è elencato fra gli alberi monumentali di interesse regionale; all’inizio di via Calvanella, in loc. S. Clemente, alcuni esemplari maestosi di roverella rendono ancora più piacevole la risalita verso monte.

La flora micologica che si associa alla Roverella, come del resto quella di altri tipi di Quercia, è piuttosto ricca, ma soprattutto di gran pregio dal punto di vista culinario: è infatti in grado di stringere simbiosi con tutte le tipologie di funghi ipogei (volgarmente chiamati “tartufi”) commestibili più ricercati, compreso il il tartufo bianco d’Alba: questa sua caratteristica rende la Roverella l’albero tartufigeno per eccellenza in Italia.

Le Roverelle che crescono in boschi termofili misti e con terreni moderatamente più ricchi, umidi e ombrosi, e con presenza di muschio, associate ad altre latifoglie quali orniello, carpino nero e cerro stringono simbiosi con funghi prelibati come l’ovulo buono (Amanita caesarea); in questo stesso ambiente, sempre associate alle Roverelle è possibile rinvenire, dalla tarda primavera/inizio estate, le commestibili Russula virescens e Russula vesca, oltre che qualche Galletto (Cantharellus pallens).

La presenza della Roverella nei boschi misti o in terreni incolti è inoltre un ottimo indizio sulla possibile presenza di alcuni prelibati funghi saprofiti fra cui il Prugnolo (Calocybe gambosa) tipico dei suoli calcarei.

Orniello (Fraxinus ornus): quando la primavera è già ampiamente avanzata (tra aprile e giugno) l’albero rimane completamente coperto di fiori di colore bianco, oppure bianco crema e molto profumati.

Praticando piccole incisioni trasversali sul fusto dell’orniello, sgorga lentamente un succo di colore ceruleo e di sapore amaro (lagrima) che a contatto con l’aria si schiarisce rapidamente e assume un sapore dolce. Quando raccolta “a cannolo”, cioè con la formazione di una sorta di stalattite dal gocciolamento della linfa lungo la corteccia, si ottiene la manna più pregiata: il raccolto viene essiccato fino al raggiungimento del 9% di tenore di umidità quando diventa pronto all’uso.

La manna è un lassativo leggero esente da controindicazioni, particolarmente adatto alla primissima infanzia, alle persone molto anziane debilitate e convalescenti (viene somministrata generalmente nel latte, o come decotto di manna, che è un blando purgante). È anche un cosmetico naturale e ha una benefica azione sull’apparato respiratorio (si comporta da fluidificante, emolliente e sedativo della tosse); è inoltre un dolcificante naturale a basso contenuto di glucosio e fruttosio, utilizzabile come dolcificante per diabetici; pezzetti di manna sciolti in bocca lentamente hanno proprietà espettoranti.

Acero campestre (Acer campestre): si tratta di un albero di modeste dimensioni che, sopportando bene il taglio, è stato ampiamente utilizzato come tutore vivo per la vite nella classica sistemazione a “piantate” tipica del paesaggio rurale antecedente alla meccanizzazione delle pratiche colturali.

L’acero è una pianta mellifera, molto visitata dalle api per il polline ed il nettare, ma il miele monoflorale d’acero è raro.

I principi attivi che rendono interessante questa pianta per scopi erboristici sono contenuti principalmente nella corteccia non ancora suberificata dei rametti giovani e sono costituiti da: tannini, fitosteroli, allantoina, colina. L’Acero campestre è conosciuto per le sue particolari proprietà astringenti ed è particolarmente indicato in caso di disturbi intestinali. Per uso esterno agisce, oltre che come astringente, come rinfrescante e antinfiammatorio in caso di affezioni cutanee e arrossamenti della pelle in generale.

Carpino nero (Ostrya carpinifolia): nel IXX secolo veniva utilizzato per la fabbricazione di spolette per tessitura e di bottoni e, più frequentemente anche oggi, per la produzione della carbonella e come legna da ardere. E’ di difficile lavorazione per la presenza di molte fibre irregolari, quindi non molto adatto per la costruzione di mobili ed utensili. Anticamente, i maghi medievali utilizzavano il suo legno per costruire le bacchette magiche!

La corteccia ha proprietà tintorie, mentre le gemme fresche possono essere utilizzate in un gemmo derivato capace di trattare la sinusite cronica, raffreddore e difficoltà respiratorie dovute ad occlusione delle narici; è drenante, disintossicante, rigenerante.

Il carpino nero entra in simbiosi con numerose specie di tartufo, fra cui anche il tartufo bianco pregiato (Tuber magnatum pico) ed il tartufo scorzone (Tuber aestivum);

Maggiociondolo (Laburnum anagyroides): il nome di questa pianta ne racconta la caratteristica più piacevole: la lussureggiante fioritura di maggio, con fiori di colore giallo oro, molto profumati, raggruppati in lunghi racemi penduli.

A scopo medicinale vengono impiegate esclusivamente le foglie essiccate e raramente i fiori ben essiccati. Svolge una potente azione come colagogo, efficace in caso di vescichette biliari, ingorghi e disturbi della cistifellea in generale, diminuzione delle secrezioni biliari; è anche un ottimo purgante e lassativo, indicato in caso di stitichezza e stipsi ostinata. Infine esercita anche un’azione ipertensiva in caso di pressione bassa ed è un buon antidepressivo. Si raccomanda di non superare mai le dosi indicate per le varie patologie poiché il maggiociondolo è una pianta molto velenosa. Le sostanze tossiche, contenute nei semi e nei fiori, possono provocare convulsioni, sintomi di avvelenamento e in alcuni casi anche la morte.

Cerro (Quercus cerris): a differenza della roverella che dà fusti nodosi e contorti, il Cerro dà fusti dritti, colonnari e privi di nodi che danno un ottimo legname da opera, pertanto si presta benissimo ad essere governato a fustaia o a ceduo composto e ceduo semplice (prodotti del ceduo sono la legna e il carbone). Il cerro è anche utilizzato per la costruzione di manici di accette, picconi, ecc. e per questo, in alcune zone, viene preferito al legname di tutte le altre specie.

Il cerro è utilizzato nella medicina popolare: la corteccia viene impiegata per fare decotti astringenti per infiammazioni emorroidarie, della pelle e delle mucose (gola, gengive, ecc.). Si fanno lavaggi, gargarismi, cataplasmi. Si possono fare anche tisane per disturbi intestinali con decotti di corteccia più diuluiti. In farmacia vengono utilizzate le noci di galla per la produzione di un tannino contenente acido gallico che serve come astringente, emostatico e contravveleno per gli alcaloidi.

Una galla è una proliferazione di cellule escrescente, di forma più o meno sferica, di varie dimensioni; si forma su foglie, tronco, rami e radici (anche del cerro) ed è dovuta solitamente a un insetto (cipinide) che deposita le uova nel tessuto vegetale. La noce di galla cresce poi attorno alla larva, la nutre e, una volta sviluppata, questa scava una galleria per volare via attraverso un piccolo forellino.

Grazie a questi insetti, quello ferrogallico è stato l’inchiostro per eccellenza fino alla nascita della stampa in quanto tenace, resistente a luce, sole, umidità e acqua.

Sorbo domestico (Sorbus domestica): I frutti, le sorbe o sòrbole, venivano usati a scopo alimentare, ma oggigiorno non vengono quasi più consumati. Le sorbe maturano nell’autunno avanzato, con concreto rischio di danneggiamento dei pomi per l’esposizione alle intemperie e la caduta: si preferisce dunque coglierle in anticipo e farle maturare in luogo chiuso; i pomi diventano scuri, morbidi e saporiti con un contenuto di zuccheri di circa il 20%, si consumano al naturale o si utilizzano per la preparazione di marmellate. Negli ultimi decenni il consumo dei frutti è andato via via in diminuzione ed oggi sono catalogati come frutti dimenticati o frutti minori.

L’infuso di gemme fresche è utile quale supporto integrativo in caso di sindromi da insufficienza venoso-linfatica: senso di pesantezza, edema, varici; tromboflebite; turbe circolatorie della menopausa (vampate di calore, cefalea, ipertensione arteriosa, parestesie); edemi degli arti inferiori; acufeni; sordità da spasmo vascolare o da timpanosclerosi.

Ciavardello (Sorbus torminalis): è un bellissimo albero, potente e generoso, in grado di colonizzare suoli argillosi e poco fertili, alto sino a 20 metri, dal frutto commestibile e molto apprezzato e dal legno pregiato, utilizzato nella falegnameria di elite. In alcuni boschi rimane per anni allo stadio arbustivo, soggiogato da alberi più alti che, privandolo della luce, non ne permettono una maggiore crescita.

I frutti di questa pianta, dal gusto un po’ acido perché ricchissimi di tannini, possiedono proprietà curative (per il contenuto di acidi organici e di acido malico in particolare) tanto che un tempo venivano usati per curare le coliche e – come tutte le varietà dei sorbi – per la dissenteria.

I frutti si possono consumare freschi e si prestano per preparare delle marmellate originali e dal gusto particolare; benché i frutti siano eduli non vengono normalmente usati in cucina.

Gli arbusti più diffusi sono invece:

Gli arbusti più diffusi sono invece:

Nocciolo (Corylus avellana): l’uso in cucina del frutto del nocciolo è diffusissimo e parte di ricette iconiche localmente e divenute celebri internazionalmente.

Può essere utilizzato un macerato glicerico di nocciolo, con tropismo elettivo per il parenchima epatico e polmonare (ha attività antisclerotiche ed aiuta a ripristinare l’elasticità di questi tessuti). Sul versante polmonare è indicato in caso di bronchite cronica, enfisema, asma, sclerosi polmonare, soprattutto se abbinato ad Alnus glutinosa. Può essere prescritto anche ai fumatori, anche in prevenzione delle patologie croniche dell’apparato respiratorio. A livello epatico è utile in caso di cirrosi anche di origine alcolica, steatosi epatica, postumi post-epatite e in tutte le epatopatie croniche. Un amalgama di olio di Nocciole, farina d’Orzo e miele può essere impiegato come maschera per pelli grasse e con problemi di acne.

Corniolo (Cornus mas): predilige i terreni calcarei e vive in piccoli gruppi nelle radure dei boschi di latifoglie, tra gli arbusti e nelle siepi. I piccoli frutti rossi vengono lavorati, oltre che per la produzione di succhi di frutta e marmellate (ottime come accompagnamento al bollito di carne), anche per aromatizzare alcuni tipi di alcolici, come, ad esempio, la grappa. I prezzi di questi prodotti sono relativamente alti a causa della bassa fertilità e del piccolo contenuto di alcool.

La corteccia ha proprietà astringenti, interne ed esterne, antidiarroiche e febbrifughe. Analoghe caratteristiche hanno i frutti che possono essere consumati freschi, sotto forma di succhi, decotti o marmellate utili come astringenti contro la dissenteria.

In settembre compaiono le drupe che svolgono azione astringente e tonica; anticamente le drupe venivano poste a macerare in acqua, dopodichè venivano sottoposte a spremitura ottenendo il “vin de còrnole”.

Biancospino (Crataegus levigata e Crataegus monogyna): un tempo veniva utilizzato come essenza costituente delle siepi interpoderali, cioè per delimitare i confini degli appezzamenti. In ragione delle spine e del fitto intreccio dei rami la siepe di biancospino costituiva una barriera pressoché impenetrabile. Attualmente l’esigenza di non rendere difficoltosa la circolazione dei mezzi agricoli meccanici ha determinato la quasi totale scomparsa delle siepi di biancospino con questa funzione.

Il biancospino è una pianta mellifera e viene bottinata dalle api ma solo raramente se ne può ricavare un miele monoflorale, perché di solito si trova in minoranza rispetto alle altre piante del territorio.

È una pianta fonte di antiossidanti e steroli, che si ricavano dal processo di essiccamento delle foglie e dei fiori (più ricchi di flavonoidi rispetto alle bacche); le sostanze che si ricavano da questa essenza sono utilissime per controllare la tachicardia e l’ipereccitabilità.

Molto utilizzata è anche la tisana o l’infuso di Biancospino (con fiori secchi), rimedi eccellenti per controllare stress, ansia e qualsiasi stato di inquietudine. Non solo, poiché questi infusi sono utili anche per contrastare la ritenzione idrica e favorire la concentrazione.

Sanguinella (Cornus sanguinea): deve il suo nome alle foglie rosse dell’autunno e al legno duro dei suoi rami: quelli più giovani si raccolgono a fine inverno per fabbricare graticci e cesti.

I frutti sono drupe grandi come un pisello e non commestibili; in seguito alla maturazione diventano neri e vengono mangiati dagli uccelli e da alcuni mammiferi.

Dalle gemme si ottiene un estratto con azione antitrombotica e anticoagulante con tropismo per il cuore, la tiroide ed il sistema vascolare.

Le piante erbacee più comuni sono:

Primula (Primula vulgaris): come suggerisce il nome, la primula è fra i primi fiori a sbocciare appena finito l’inverno e tappezza i sottoboschi più freschi e umidi con i suoi bei fiori gialli.

Contiene oli essenziali e flavonoidi, carotenoidi e saponina. Foglie, fiori e rizoma hanno proprietà antispasmodiche (attenua gli spasmi muscolari, rilassa il sistema nervoso), calmanti (agisce sul sistema nervoso diminuendo l’irritabilità e favorendo il sonno), diuretiche, lassative e sudorifere. Nel passato veniva usata più largamente contro l’emicrania ed i reumatismi.

Un uso indiscriminato può causare irritazioni cutanee.

Le foglie e i fiori trattate come il tè possono essere usate per bevande, mentre da giovani (prima della fioritura) si mangiano in insalata o lessate o in minestra con altre verdure. In alcune zone con i fiori si produce marmellata, mentre il rizoma può servire per aromatizzare la birra.

Erba trinità (Hepatica nobilis): i suoi fiori sbocciano all’inizio della primavera tra marzo e maggio e sono di colore blu porpora: spuntano nel terreno freddo e indurito dall’inverno, tra le radici degli alberi nel sottobosco, tra le pietre. Vedere sbocciare i fiori blu-viola dell’erba trinità vuol dire che sta arrivando la primavera.

La pianta contiene degli alcaloidi tossici: questi però con l’essiccazione perdono le proprietà venefiche. Quest’erba deve essere dunque usata solo dopo essere stata disseccata.

L’erba trinità vanta potere disintossicante per il fegato: assumerla nelle giuste dosi è come sottoporre il fegato ad un lavaggio da tutte le tossine che si sedimentano e che ne compromettono la funzione e la capacità di lavorare a pieno regime.

Assumere erba trinità ha anche importanti proprietà diuretiche, emollienti ed astringenti e porta vantaggi all’apparato circolatorio.

Ciclamino (Cyclaminem neapolitanum): benché il periodo di massima fioritura sia settembre, può accadere che i fiori compaiono già in agosto, se il tempo è particolarmente umido. Il colore tipico è il malva, ma numerose sono le sfumature che possono andare dal bianco al rosa carminio. Cresce in ombra in ambienti freschi e umidi. Il tubero contiene ciclamina, una saponina ad elevata tossicità.

Viola (Viola dehnhardtii, Viola reichenbachiana): la bellezza delle fioriture di viola è nota a tutti e si può apprezzare nei mesi da aprile a luglio nei sottoboschi freschi e umidi, ma anche in luoghi erbosi ai margini dei boschi e lungo le siepi.

Ha le seguenti proprietà farmaceutiche: diuretiche, lassative, espettoranti, emollienti, tossifughe. Per uso esterno: per scottature e infiammazioni (si usano rizoma e fiori). In cucina, sin da tempi antichissimi foglie e fiori vengono largamente usati in insalata.

Giglio rosso dei boschi (Lilium croceum): viene anche chiamato giglio di san Giovanni perché fiorisce a fine giugno (S. Giovanni si celebra il 24 giugno). Cresce spontaneo sui pendii erbosi ed assolati dei monti italiani; si trova nelle radure, ai margini dei boschi e nei pascoli subalpini ed appenninici e stupisce gli escursionisti con il suo fiore di un giallo-arancione sgargiante su steli di circa 1 metro di altezza.

L’ambiente più ricco della Valle del Sillaro per quanto riguarda la diversità animale è sicuramente quello dei boschi mesofili, con un’enorme disponibilità trofica data dalla produzione di ghiande e altri frutti, che innescano un’ampia e ben ramificata rete alimentare.

Quando si parla di ghiande non si può non citare lo scoiattolo (Sciurus vulgaris), roditore ben riconoscibile dalle sue caratteristiche tipiche: orecchie appuntite e folta coda, lunga quasi quanto il corpo e formidabile baricentro per i salti e le corse lungo i rami. Come tutti i Roditori, anche lo scoiattolo è caratterizzato da incisivi a crescita continua: utilizzati per l’alimentazione o la costruzione di tane e rifugi, crescono incessantemente contrastando in questo modo la loro usura. Nella dieta dello scoiattolo rientrano ghiande e frutta, semi ma anche insetti e talvolta uova. Ben nota è la tendenza a nascondere “provviste” sottoterra, aiutati dalla loro memoria olfattiva per ritrovarle al momento del bisogno. Ma questa memoria talvolta inganna, favorendo in questo modo la disseminazione di specie arboree quali noccioli e querce.

Lo stesso importante ruolo ecologico viene svolto dalla ghiandaia (Garrulus glandarius), un uccello appariscente e dal piumaggio variamente colorato e distinguibile: marrone chiaro nella maggior parte del corpo, con piume bianche nel basso ventre, vistose penne nere sulla coda e parte delle ali, oltre ad un piccolo ma sgargiante pannello azzurro sulle ali. Il tipico verso sgraziato da corvide la identifica chiaramente tra le chiome degli alberi anche senza osservarla. Qui costruisce grandi nidi tra i rami, molto importanti negli anni successivi perché spesso vengono occupati da uccelli rapaci in un passaggio di testimone fondamentale per questi ultimi. Il termine ghiandaia fa chiaramente riferimento alla sua dieta, che è sì onnivora come gli altri Corvidi, ma maggiormente caratterizzata da ghiande, faggiole e semi di carpino.

Tipici abitatori dei boschi sono anche i rappresentanti della famiglia dei Picidi, che raggruppa specie comunemente note ma non sempre facilmente riconoscibili. Sono specialisti nella predazione di insetti xilofagi e per questo hanno evoluto diversi adattamenti fisiologici ed etologici talvolta unici tra tutti gli uccelli. Sono ad esempio gli unici ad avere dita mobili e opposte: due anteriori e due posteriori, per aggrapparsi bene ai tronchi degli alberi; per lo stesso motivo le penne della coda sono rigide, per fornire un’utile superficie d’appoggio. Il becco è potente e appuntito, completamente ammortizzato grazie a tendini e alla microstruttura spugnosa del cranio, che consentono all’animale di colpire violentemente il legno senza spaccasi la testa. Infine la lingua lunga e appiccicosa, che viene arrotolata intorno al cranio quando non è utilizzata per catturare gli insetti. Sugli alberi i picchi cercano dunque cibo: vanno a colpo sicuro sfruttando il loro finissimo udito in grado di sentire il rumore degli insetti all’interno del legno sottostante. Sugli alberi costruiscono anche il proprio nido, dall’apertura perfettamente rotonda e grande quanto basta per entrare agilmente e tenere all’esterno i predatori.

Nella media Valle del Sillaro è presente il picchio verde (Picus viridis), chiamato così per la colorazione verde-giallastra del dorso ma caratterizzato anche da una vistosa testa rosso accesa. La sua “risata”, costituita da versi sussultori ripetuti è molto facile da sentire e riconoscere.

Riscontrabile anche il picchio rosso maggiore (Dendrocopos major), chiamato così per il piumaggio rosso intenso presente sul basso ventre in entrambi i sessi (più sulla nuca dei maschi), che contrasta con il resto del corpo bianco e nero.

Vi è poi un uccello dalla taglia più piccola che, nonostante il nome, non è parente dei picchi: il picchio muratore (Sitta europea) viene così chiamato per il becco acuminato che sfrutta per aprire ghiande o nocciole posizionate tra i buchi delle cortecce. L’abitudine di adattare alle sue dimensioni il foro di ingresso dei nidi di “veri” picchi con un impasto di fango, ha determinato la seconda parte del nome. Il picchio muratore si riconosce dalla striscia oculare nera su corpo diviso in due in senso longitudinale: grigio-azzurro sulla parte superiore e giallo-marrone sulla parte ventrale. Sedentario e svernante nel nostro territorio, è facile osservarlo procedere alla ricerca di insetti completamente capovolto sul lato inferiore di rami o a testa in giù sui tronchi.

Il picchio muratore è una specie molto facilmente osservabile sulle mangiatoie invernali, così come le comuni cince.

Il gruppo delle cince raggruppa piccoli Passeriformi tozzi e dal becco corto, molto comuni da vedere e sentire, anche grazie alle loro abitudini quasi urbane. Le due specie più riscontrabili in assoluto sono la cinciallegra (Parus major) e la cinciarella (Parus caeruleus), simili per nome ma distinguibili, oltre che dal canto, anche per la colorazione: in entrambe le specie il petto è giallo ma mentre la cinciallegra ha testa nera con guance bianche, la cinciarella ha un “berretto” azzurro e guance sempre bianche contornate di nero. I colori più brillanti e le parti nere più ampie distinguono poi i maschi dalle femmine, che hanno la stessa taglia. Residenti e nidificanti, le due specie rimangono nel nostro territorio anche in inverno, quando sono tra le più comuni da osservare intorno alle mangiatoie. Ma attenzione: è giusto e piacevole prendersi cura di loro nel periodo più difficile dell’anno ma l’aiuto non deve continuare anche in primavera, quando questi uccelli hanno necessità di un notevole apporto proteico per gli affamati nidiacei (tramite insetti e lombrichi e non tramite semi e granaglie).

I rapaci notturni sono invece uccelli che cacciano di notte prede di diverse dimensioni grazie al formidabile udito. Sono tanti gli adattamenti evolutivi a questo tipo di caccia, tra cui la tipica conformazione facciale concava, utile per convogliare le onde sonore prodotte dai piccoli movimenti di topi e ghiri nel silenzio della notte. Anche il folto e morbido piumaggio formato da penne sfrangiate è una formidabile arma di caccia, che consente un volo silenziosissimo per cogliere di sorpresa le prede.

Tra i rapaci notturni sono diverse le specie osservabili (o più facilmente udibili!), stanziali e riproduttive nella media Valle del Sillaro, dove costruiscono il nido in cavità naturali o vecchi nidi di altre specie. La più tipica traccia a segnalare un nido e in generale i rapaci notturni è la borra, costituita da un cilindro compatto di peli e ossa delle prede, che viene rigurgitata come resto indigeribile.

L’allocco (Strix aluco) è una specie di medie dimensioni dal grosso capo rotondeggiante privo di ciuffi auricolari e con gli occhi neri; il piumaggio può presentarsi bruno-rossiccio o bruno-grigio. In generale l’aspetto è quello di un uccello dalla struttura compatta. Il suo canto va a costituire il “classico” verso dei rapaci notturni, con un “uhuhuuuuuu” vibrato, che si può imitare soffiando tra i palmi delle mani chiuse.

Di dimensioni simili ma di colorazione molto diversa è il barbagianni (Tyto alba): proprio il nome latino (album = bianco) fa riferimento al colore prevalentemente chiaro di questa specie, soprattutto sulla parte ventrale. In realtà le colorazioni possono essere diverse, con sfumature variabili a seconda della popolazione. In tutte rimane un disco facciale a forma di cuore molto identificativo. Il repertorio vocale del barbagianni è variegato, includendo soffi, urla e stridii, tra i motivi che hanno portato alla falsa credenza che la specie fosse portatrice di sventure o addirittura l’incarnazione di streghe e fantasmi. Ciò vale per il barbagianni ma anche per tutti i rapaci notturni in generale: è importante ricordare invece la loro importanza ecologica e la necessità di conservare delle specie così affascinanti. Rimane però testimonianza di queste credenze anche nell’etimologia della parola strega, dal greco strix = stridio, legato ai versi degli rapaci notturni, da cui ha tratto origine anche il nome dell’ordine degli Strigiformi che li raggruppa.

Specie parzialmente diurna, la civetta (Athene noctua) trae invece il suo nome scientifico dal legame con la dea Atena. È un rapace piccolo e compatto, con testa grossa e occhi gialli, piumaggio bruno con picchiettatura bianca. Tipica è la “falsa faccia” disegnata da penne bianche sulla nuca, che confondono eventuali predatori e può trarre in inganno quando la si osserva sopra ad un sasso o sopra i fili della luce, dove tipicamente si può notare anche ccanto ad abitazioni.

La specie più piccola di tutte è l’assiolo (Otus scops), dalle dimensioni inferiori a quelle di un merlo. Il piumaggio è grigio chiaro con striature bianche e ciuffi auricolari; gli occhi sono gialli. Date le dimensioni e la colorazione mimetica è estremamente difficile osservarlo mentre è facilissimo udire il canto dell’assiolo nelle zone alberate, compresi i parchi periurbani: un corto e acuto fischio, che ha generato anche il nome comune con cui talvolta viene identificata la specie (chiù).

I boschi mesofili sono habitat perfetto anche per alcuni Mammiferi, tra cui due Mustelidi poco osservabili in maniera diretta in quanto prevalentemente notturni: la faina (Martes foina) e donnola (Mustela nivalis). La taglia maggiore (60-70 cm di lunghezza compresa la coda) e un’ampia macchia golare bianca su mantello uniformemente marrone distinguono la faina dalla donnola, molto più piccola e affusolata (meno di 30 cm compresa la coda), con una livrea bicolore: marrone nella parte superiore del corpo e bianca sulla parte ventrale. Abili predatrici di piccoli mammiferi, rettili, anfibi e insetti, lasciano le proprie fatte tipicamente sulla cima dei sassi: le piccole dimensioni e la composizione delle feci permette di riconoscere facilmente il loro passaggio.

Altrettanto facilmente identificabile risulta l’istrice (Hystrix cristata), il più grosso Roditore del nostro territorio, con dimensioni che raggiungono gli 80 cm in lunghezza e un peso fino ai 20 kg. I famosi aculei che proteggono l’animale sulla parte dorsale sono di diversa durezza e foggia: nerastri quelli sulla nuca, molto morbidi e lunghi fino a 50 cm (sono più precisamente delle setole); sempre più rigidi e bicolori (bianchi e neri) quelli sul dorso, dove raggiungono i 30 cm di lunghezza. Una leggenda molto diffusa su questo animale riguarda la sua capacità di difendersi lanciando gli aculei: in caso di pericolo questi vengono sì eretti ed è facile che durante lo scontro con un predatore possano essere perduti, ma l’animale non è in grado di lanciarli come frecce!

L’istrice è conosciuto anche come porcospino, da non confondere però con il riccio (Erinaceus europaeus), animale più piccolo e caratterizzato da aculei molto più corti, dal colore marrone.

Il riccio è un animale carnivoro, che si nutre di uova, rettili e anfibi ma è in grado di catturare anche grandi insetti, come ad esempio il raro cerambice della quercia (Cerambix cerdo). Questo Coleottero vive da larva all’interno dei tronchi di grandi dimensioni, soprattutto querce, ma anche castagni o faggi spesso già morti. Ecco un motivo in più per proteggere e conservare i pochi “patriarchi verdi” che ancora caratterizzano il territorio!

Un altro esempio di larva xilofaga è il cervo volante (Lucanus cervus), un Coleottero caratterizzato da adulto dallo sviluppo di possenti mandibole. Queste strutture, che si sviluppano maggiormente nei maschi servono per aspri combattimenti per la difesa del diritto all’accoppiamento da parte dei maschi.

Lo stesso comportamento viene adottato dal “vero” cervo (Cervus elaphus), considerabile per le sue dimensioni (più di 200 kg di peso e fino a 150 cm di altezza al garrese nei maschi) il vero e proprio “re della foresta”. Il cervo si guadagna questa nomea anche per il suo potente richiamo che riecheggia per chilometri durante il periodo degli accoppiamenti, tra metà settembre e metà ottobre: il bramito segnala il possesso da parte di un maschio di un harem di femmine, difeso anche con violenti combattimenti. Terminato questo periodo i maschi tornano a formare piccoli nuclei di coetanei, mentre le femmine possono essere avvistate in branchi anche molto numerosi, fino a 30 esemplari.

Il cervo è un ungulato riconoscibile dal mantello uniformemente colorato di marrone-grigio in inverno e marrone-rossastro in estate, dai palchi acuminati e dallo specchio anale leggermente più chiaro del resto della pelliccia. I cuccioli del cervo, chiamati cerbiatti, mantengono il tipico mantello pomellato fino ai 3 mesi d’età.

Lo stesso mimetismo viene mantenuto dal daino (Dama dama) anche da adulto, mentre in inverno è uniformemente marrone-grigio. Questo animale, originario dell’Asia Minore, è ormai naturalizzato nel nostro territorio da diversi secoli. È un ungulato di medie dimensioni con palchi ampi e palmati, sempre più larghi all’avanzare dell’età. Lo specchio anale è bicolore dunque facilmente riconoscibile: neri sono i contorni e la coda, bianco il resto. Relativamente facile avvistarlo all’alba o al crepuscolo al margine dei campi, con gli altri cervidi condivide tracce simili: escrementi ovoidali e impronte formate dai due zoccoli allineati. Le abitudini alimentari del daino sono intermedie tra capriolo e cervo: mentre il primo viene definito un brucatore, alla ricerca di gemme, foglie giovani o parti vegetali ad elevata concentrazione proteica, il secondo è un pascolatore puro, che ha bisogno di ampie distese erbose.

L’intera famiglia dei Cervidi, all’interno dei Mammiferi Artiodattili, è caratterizzata dalla presenza di palchi, comunemente confusi con le corna. Queste ultime sono formate da cheratina, sono a crescita continua e rimangono sulla testa dell’animale per tutta la durata della sua vita. Esempi classici di animali dotati di corna sono le vacche, le capre, ma anche stambecchi, camosci o giraffe.

I palchi dei cervidi sono invece formati da tessuto osseo, a crescita annuale: con cicli diversi da specie a specie, i cervidi perdono il proprio palco e lo ricostruiscono ogni anno. Nella maggior parte delle specie (come i nostri caprioli, daini e cervi) i palchi sono presenti solo nei maschi e sono caratteri sessuali secondari, a dimostrazione di salute e potenza fisica: più i palchi sono possenti e ramificati, più il loro proprietario è in grado di assicurare una prole fertile e sana, grazie alla vigorosa forma fisica che ha contribuito alla crescita dell’imponente palco. Il palco dei cervidi è l’organo a più rapida crescita del mondo animale: un cervo adulto può sviluppare un palco di 10 kg e oltre 1 m di altezza nell’arco di 3-4 mesi! Tale processo avviene grazie ad un tessuto, chiamato velluto, che riveste il palco in formazione, garantendogli l’apporto di calcio e altre sostanze necessarie al suo accrescimento tramite una fitta rete di vasi sanguigni. Terminato lo sviluppo del palco, il velluto viene grattato via dall’animale contro i tronchi degli alberi, determinando anche il tipico colore brunastro dei palchi, che appena sbucano dal velluto sono invece bianchi, come tutte le ossa.

I percorsi che attraversano questi ambienti

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